Ero piccolo quando cominciai a scrivere le mie poesie sul natale, sulla primavera o sui miei compagni di classe. Cominciai così, per caso e per gioco. Mostravo le composizioni ai miei maestri e ai miei compagni. Mi divertivano. Poi pian piano usai le parole per rappresentare i pensieri che cominciavano a popolare la mia coscienza, man mano che crescevo e vivevo le tappe dalla vita di ognuno. All'inizio erano solo parole messe insieme secondo gli schemi del sonetto o delle rime baciate, poi cominciarono a piacermi una certa metrica che aggiungeva ritmo e musicalità, e certe immagini che le parole evocavano e meglio imprimevano nella mente il senso della scena. Molte poesie erano autobiografiche, disegnavano le mie tappe, e rivelavano quei segreti che non riuscivo ad esprimere apertamente e a condividere. E le leggevo e rileggevo, le modificavo, le limavo. Riviste poi a distanza di tempo, quando avevo raggiunto una certa lontananza dalle sensazioni e dalle occasioni che le avevano suggerite, riconoscevo in esse un carattere di universalità, riconoscevo che quelle esperienze potevano essere vissute da tutti.
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